14 ottobre 2009 3 14 /10 /ottobre /2009 10:56

L’umana corporeità, osservata nella contestualità di un dio creatore, è logicamente inacettabile visto che la vita eterna, ovvero quel periodo impareggiabilmente più importante sia sotto il profilo temporale che esistenziale, trascorrerebbe come soma pneumatikon (corpo spirituale).

La ragionevolezza suggerirebbe la sua inutilità, direttamente a favore del successivo, nonchè definitivo, grado di consapevolezza.


Ma c’è chi, su questo tema, invoca il libero arbitrio, cioè l’inevitabilità di vivere una fase corruttibile affinchè l’uomo possa esercitare la propria libertà di scelta. Prospettiva finalistica, e teistica, che dovrebbe necessariamente prevedere un serio impegno da parte di Dio nella protezione personale ed imprescindibile di ciascuno, fino al raggiungimento della singola scelta di amare o rifiutare infinitamente Dio. Escludendo questa garanzia, l’operazione diventerebbe altamente rischiosa, dipendente dal fatto che un corpo fisico è vulnerabile e potrebbe non farcela a percorrere sufficientemente quel tratto di esistenza progammata.

Ancora una volta, ridurre passaggi significherebbe ridurre rischi e la tesi iniziale rimarrebbe legittima.

Parallelamente esiste un altro problema.


Infatti, da un dio giusto ci si aspetterebbe libero arbitrio anche prima dell’atto stesso di venire al mondo, una forma di propedeuticità alla nascita, per permettere di decidere se volere o meno affrontare quella esperienza: un dio onnipotente avrebbe potuto architettare in questo modo l’esistenza. Invece, venire alla luce è assoluto, imposto ed involontario; ognuno di noi viene prepotentemente e violentemente strappato dalla propria condizione di “assenza”, a suo modo gaudente, e defraudato del proprio diritto di essere nulla, per una finalità che potrebbe anche non avere il tempo di realizzarsi.


Personalmente faccio fatica a mettere tutti i tasselli al loro posto. La mia logica vi si oppone.

Se non altro, è consolante sapere di non essere il solo a pensare che “noi non siamo voluti per noi stessi dall’eternità divina (...) [non siamo] dotati (o gravati) di un progetto che preesiste su di noi e che a noi spetta realizzare.” (Vito Mancuso, “L’anima e il suo destino”, RaffaelloCortinaEditore, 2007).

Se, quindi, non siamo gravati di tale progetto, siamo necessariamente in presenza di un dio ingiusto ed autoritario (il dio ebraico) che prima decide di metterci al mondo, senza interpellarci, abbandonandoci al destino della carne, per lasciarci “liberi” di decidere se scegliere la felicità eterna o la dannazione infinita (gran bel dilemma ...!).


Fortunatamente, ci viene in aiuto, ancora una volta, la possibilità, e plausibilità, di pensare che Dio sia solamente un’idea.

E allora tornerebbero i conti, senza forzature e senza contraddizioni. Il dio vivente summam intelligentiam non esiste, dunque non può essere ingiusto e/o cattivo, noi non abbiamo nessun progetto da realizzare, nessuna prova a cui essere sottoposti, nessuna decisione retorica da prendere, pro o contro Dio. Siamo liberi. L’entelechia del cosmo aristotelica definisce proprio questo: il cosmo come fine a se stesso, senza il bisogno di interventi divini.


Ovviamente questa storia ha un seguito.

“Perchè c’è qualcosa invece del nulla?”, come si chiese il grande matematico filosofo di Lipsia, Gottfried Wilhelm Leibniz. Nulla significa il vuoto assoluto. Non un respiro, non un suono, non una fioca luce, neanche un infinitamente microscopico quark. Non l’universo. Niente di niente. Equilibrio assoluto. Dunque, perchè “qualcosa”?

Alcuni scienziati affermano che il nulla, in realtà, sia instabile. E proprio per la sua instabilità il nulla genererebbe la materia. Infatti, secondo la meccanica quantistica nel vuoto apparirebbero e scomparirebbero continuamente particelle ed antiparticelle.

In questo modo, tutta la vita sarebbe inevitabile conseguenza; o, come sostiene in Blueprint for a Cell: The Nature and Origin of Life (1991) il premio Nobel 1974 per la medicina, Christian de Duve, “la vita è una manifestazione obbligata della proprietà combinatoria della materia”.


Quindi nessuna casualità, ma solo causalità. La materia era necessaria, il vuoto insostenibile. E la vita, naturale conseguenza dell’esistenza della materia.

Un’idea anche questa, che richiede rigorosi approfondimenti, ma che, escludendo l’esistenza di Dio, eliminerebbe alla radice anche i dubbi sulla sua solidissima peculiarità: la bontà.

Infatti, “come si può escludere che ciò che viene usualmente chiamato 'Dio Onnipotente' non volga la sua onnipotenza a ingannarci anche in ciò che ci sembra più discutibile? Naturalmente Cartesio non afferma che questo Dio negativo esiste, ma nel suo ricominciare tutto da capo, la filosofia non può escludere l’ipotesi dell’esistenza di un tal 'Dio'.” (Emanuele Severino, Filosofia. Lo sviluppo storico e le fonti. Vol. II. Sansoni, Firenze, 1991).


In altre parole, se si vuole ricercare la verità senza falsi pudori o pericolose ipocrisie, guidati da una mente assolutamente aperta, fare un lavoro ineccepibile, insomma, vagliando tutte le probabilità diverse da zero, si deve mettere in conto anche la possibilità di un dio non buono.

Se esiste.


E qui si apre una voragine, oltre che una crisi d’identità ontologica, perchè anche questa eventualità, assieme a quella della non sussistenza di un dio creatore, avrebbe più possibilità di essere vera di quella dell’esistenza di un dio onnipotente buono. Anzi, se volessimo ricercare un sommo autore dell’universo “nei vari e contraddittori eventi della vita umana”, dovremmo volgere più coerentemente il nostro pensiero proprio ad un dio non buono o addirittura al politeismo “e alla concezione di più divinità e imperfette”, scenario, a sua volta, più probabile di quello che contempla l’esistenza di un unico dio onnipotente.


Per cui, per assurdo, proprio la realtà della corporeità umana confuterebbe la sussistenza dell’Altissimo, ed ineluttabilmente la sua versione di ente infinitamente buono, determinando una più robusta ammissibilità di alternative nature che non si possono trascurare se non si vuole continuare a credere ad una rappresentazione bigotta e superata del divino.

 

(heidi)

 

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commenti

E
<br /> <br /> L'ultima formulazione di questo argomento (che dovrebbe nascere con San Tommaso) è quella di J. L. Mackie. <br /> <br /> <br /> Mackie prende in considerazione dio come essere perfetto (perfettamente buono, onnipotente e onnisciente), e afferma:<br /> <br /> <br /> 1. Necessariamente, se ci fosse un dio perfetto, vorrebbe eliminare ogni male (data la sua perfetta bontà).<br /> <br /> <br /> 2. Necessariamente, se ci fosse un dio pefetto, potrebbe eliminare ogni male (data la sua onnipotenza).<br /> <br /> <br /> 3. Necessariamente, un dio perfetto che volesse e potesse fare qualcosa, lo farebbe (data la sua onniscienza).<br /> <br /> <br /> 4. Necessariamente, un dio perfetto eliminerebbe ogni male.<br /> <br /> <br /> 5. Ma il male esiste.<br /> <br /> <br /> 6. Quindi non c'è un dio perfetto.<br /> <br /> <br />  <br /> <br /> <br /> Ma l'argomento più convincente e robusto di tutti è quello proposto da William Rowe:<br /> <br /> <br /> a. Ci sono mali che un dio perfetto eliminerebbe, se esistesse.<br /> <br /> <br /> b. Tali mali esistono.<br /> <br /> <br /> c. Quindi un dio perfetto non esiste.<br /> <br /> <br /> <br />
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inabissato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro e che m’ignorano, 

io mi spavento e stupisco di trovarmi qui piuttosto che là, non essendoci 

nessuna ragione perchè sia qui piuttosto che là, oggi piuttosto che domani. 

Chi mi ci ha messo? Per ordine e per opera di chi questo luogo e questo 

tempo furon destinati a me?"


(da Pensieri, Blaise Pascal)

 

 

 

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Non cesseremo di esplorare 
E alla fine di tutto il nostro esplorare 
Arriveremo al punto di partenza 
E conosceremo il luogo per la prima volta.

                               (Little Gidding di T.S.Eliot)

 

 

Ho attraversato i continenti 
Per vedere il più alto dei mondi 
Ho speso una fortuna
Per navigare sui sette mari
E non avevo avuto il tempo di notare 
A due passi dalla porta di casa 
Una goccia di rugiada su un filo d’erba.

                                    (Rabindranath Tagore)

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